Guerra in Ucraina

L’uomo tende, per sua natura, a dimenticare. È fisiologico. Quello che non viene ripetuto costantemente è destinato a svanire negli angoli più reconditi della mente. Si chiama curva dell’oblio. Da una parte dimenticare è fondamentale, se ricordassimo tutto verremmo sopraffatti. Ma si possono dimenticare le guerre? Si può dimenticare il male arrecato? Eppure, l’uomo non ricorda. Abbiamo dato per scontato qualcosa che non è tale: la pace. L’Europa ha assistito a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale al più lungo periodo di pace della storia. Forse perché le guerre sono sempre state distanti dalla nostra Europa. Ma sì, tanto sono in Africa, no? Il dare per scontato comporta sempre, per forza di cose, delle conseguenze. Due anni fa, proprio di questo periodo, eravamo terrorizzati dall’arrivo di una pandemia globale, oggi, a due anni di distanza, siamo impauriti da una guerra combattuta in Occidente e provocata da un uomo desideroso di potere e denaro. Non sono gli anni venti di questo secolo maledetti, siamo noi il problema. Noi che con i mezzi a nostra disposizione non siamo in grado di far fronte ai cambiamenti climatici, noi che ci accorgiamo sempre tardi che non si può fare più nulla. Gli antichi latini dicevano: “Historia magistra vitae”, sì, ma solo per quelli che la storia la studiano. Come ha fatto un pazzo come Hitler a portare alla morte sei milioni di ebrei, un decimo della popolazione italiana complessiva? Perché succede sempre la stessa cosa: l’uomo abbassa la guardia. In questi giorni stiamo accogliendo profughi da un Paese la cui bandiera è diventata a noi così famigliare, quei due colori, giallo e azzurro, sono un po’ anche nostri. Ma ciò dovrebbe valere per qualsiasi altro Stato: ci siamo dimenticati di quanto accade in Siria, delle persone afghane che, alla partenza degli aerei americani, si sono aggrappate a essi, del terrorismo che ha causato morti a Parigi, Nizza, Barcellona, o della guerra che da anni dilaga in Yemen, dei morti nel Mediterraneo e di tante altre guerre che, per quante sono, non è possibile citare? E allora ricordiamo, ricordiamoci di quei cento bambini morti in questi giorni, di quella donna russa sopravvissuta all’Olocausto che è stata arrestata, del flusso migratorio cui stiamo assistendo, degli ospedali, dei supermercati, delle scuole e università bombardati. Vi siete chiesti cosa significhi per i giovani non potere andare a scuola? Significa negare loro la possibilità di sviluppare un pensiero critico per proteggere la loro libertà. Avete pensato a cosa significhi per un bambino vedere con i propri occhi le macerie della città di origine oppure il proprio padre andare al fronte imbracciando un fucile, lo stesso bambino che di fucile aveva visto solo quello giocattolo? La memoria deve essere la nostra alleata contro la guerra. Perché quest’ultima non è mai giusta, in quanto a morire, come disse Gino Strada, “i ricchi e potenti ci mandano sempre i figli dei poveri”. È dal 2014 che Putin minaccia l’indipendenza dell’Ucraina ma le parole di Naval’nyj e di altri russi contrari alla dittatura putiniana non sono state ascoltate. Il dittatore russo “ha fatto fuori anche Greta”, il cui grido “There is no Planet B” ha aleggiato nell’aria per diversi mesi con la speranza che gli Stati del Mondo avrebbero preso delle decisioni per contrastare i cambiamenti climatici. Ma niente, è stata la minaccia di un terzo conflitto mondiale a risvegliare gli animi sopiti dell’umanità. “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, “Sono umano, niente di ciò che è umano ritengo a me estraneo”, questa la frase di Terenzio che dovrebbe farci riflettere. Un uomo che porta alla morte suoi simili è da considerarsi tale? Io non credo. Ri-cordiamo, parola che ha a che fare con il cuore (cor, cordis; non a caso anche il francese e l’inglese utilizzano espressioni quali “par coeur” e “by heart” per indicare l’azione di imparare a memoria), che solo condannando atti disumani saremo veramente liberi. In questi giorni, quando poggio la testa sul cuscino, faccio incubi, sono afflitta da un sonno irrequieto e mi sento in colpa perché fortunata a essere nella parte d’Occidente che ha fatto esperienza dei settanta lunghi anni di pace mentre gli Ucraini, nascosti nei sotterranei, non sanno se sopravvivranno alle bombe e se rivedranno mai le loro case.  Questo il mio augurio: imparare a non dare mai niente per scontato. In quanto figli della Rivoluzione francese, mai come ora, dobbiamo credere nel motto “Liberté, égalité, fraternité” e allora accogliamo altri cittadini del Mondo, non voltiamoci dall’altra parte. Mai.

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Test medicina 2021

16 settembre 2021

Mi sento come un anno fa a quest’ora, con una differenza però: la consapevolezza di averci messo tutta me stessa, di aver dato il cento per cento. Domani escono le graduatorie anonime del test di medicina e ho il cuore che mi batte fortissimo, temo quasi che mi possa esplodere nel petto da un momento all’altro. Sono emozionata perché non vedo l’ora di leggere accanto al mio codice etichetta il punteggio che mi sono calcolata e ricalcolata, nella speranza di averci azzeccato. Non vedo l’ora di poter dire almeno una volta nella mia vita che sono orgogliosa di me stessa come non lo sono stata mai. Non vedo l’ora di poter dire che tutti i miei sacrifici sono stati ripagati, che tutte le ore spese a fare simulazioni su simulazioni hanno dato i loro frutti. A oggi, tra molti se e molti forse, posso dire che sono orgogliosa di come ho gestito tutti gli impegni: gli esami universitari, portati a termine con successo il 21 luglio, e la preparazione al test. Tutto questo all’oscuro di tutti. Nessuno sa ciò di cui io sono stata certa fin dal 3 settembre 2020 quando, terminata la prova, ho posato la penna sul tavolo con le lacrime agli occhi perché consapevole che nemmeno quella sarebbe stata la volta buona. A chi mi chiedeva se avrei riprovato per l’ennesima volta il test di medicina rispondevo di no o quantomeno che non ne ero certa. Non volevo che le parole delle persone potessero distogliermi dal mio obiettivo: “Ma davvero, Giulia, vuoi riprovare il test per la terza volta?”, “Ma se non sei entrata per due volte di fila significa che non è destino!”. Ma io vorrei sapere, voi che parlate tanto di destino avete mai letto Machiavelli in vita vostra o sentito nominare il detto latino “unusquisque faber fortunae suae”? E la famosissima frase di Einstein: “Il successo è l’uno per cento fortuna e il novantanove per cento duro lavoro”? Come dissi una volta a una mia amica: il futuro è semplicemente una proiezione di ciò che farai oggi. E con queste frasi nella testa un mese dopo la prova disastrosa mi sono rimboccata le maniche e ho ricominciato a credere in me stessa. All’inizio mi sentivo a pezzi, mi sembrava di essere come don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento, ma poi, passo dopo passo, ho visto i progressi che stavo facendo e ho pensato che in fin dei conti non ero tanto debole come credevo, come mi avevano fatto credere per tanto tempo. Mia mamma un giorno mi disse che mi sarei dovuta comportare come una formichina che mette da parte le provviste per l’inverno. E io ho fatto così: briciola dopo briciola, mattone dopo mattone, ho spianato la strada che mi avrebbe fatto raggiungere la meta. Non so se fra venti giorni sarò nella mia prima scelta o dovrò trasferirmi in un’altra città, ma poco importa, perché andrei anche in capo al Mondo per realizzare il mio sogno. Ringrazio i miei genitori (gli unici a sapere che avrei tentato un’altra volta questo maledettissimo test) perché mi hanno supportata (anche economicamente, dal momento che non è facile coi tempi che corrono) e sopportata in tutti questi mesi. “Papà, lo sai che ho totalizzato 76,4 punti a questa simulazione?”, “Mamma, oggi usciamo sul tardi perché prima devo correggere la simulazione che ho fatto stamattina”. Ringrazio le mie migliori amiche che, sebbene al momento siano all’oscuro di tutto, mi sono sempre state accanto. Ringrazio un mio professore del liceo che un giorno mi disse: “Ho saputo che vuoi entrare a medicina. Sono sicuro che ci riuscirai. Hai la determinazione giusta per farcela”. Ringrazio la mia psicologa che mi ha aiutata a capire che i miei punti deboli erano in realtà punti di forza. Ringrazio soprattutto chi non ha creduto in me, chi mi guardava con aria di sufficienza quando dicevo che avrei voluto intraprendere il lungo e duro percorso di medicina. Ringrazio tutte le pagine di instagram e gli studygram (perché sì, instagram è anche un bel “luogo”) di medicina e non solo che mi hanno dato tanta motivazione. E infine, ringrazio me stessa per averci creduto fino in fondo. Davanti alla prova, in quei 100 minuti che inesorabili scorrevano, ho tenuto alta la concentrazione. Crocetta dopo crocetta sentivo di stare facendo bene, di essere lì a un passo dal mio obiettivo. Ero come in una bolla, nessuno esisteva intorno a me. Io sola con davanti un plico di fogli e con una frase che mi ronzava nella testa: “Don’t stop until you are proud”. No Giulia, non fermarti finché non sarai soddisfatta. Questa la frase che mi ha accompagnata per tutto l’anno e che ho anche come sfondo del computer. 

“A volte sono le persone che nessuno immagina che possano fare certe cose quelle che fanno cose che nessuno può immaginare” (Chi indovina la citazione?)

P.S.: In ultima battuta ringrazio il MUR che mi ha quasi fatto venire un infarto quando ha detto che avrebbe annullato le domande errate o quelle sotto verifica che in molti avevamo segnalato. Lo ringrazio perché mi ha fatto credere di non conoscere le regole di Chargaff e perché ho dubitato che la massa di un atomo fosse dell’ordine di 10^-27 Kg. La cosa, per loro fortuna, è finita bene: mi hanno restituito i 5,7 punti che mi spettavano. A me così come a tutti coloro i quali avevano risposto correttamente alle domande.

TEST DI MEDICINA 2020

Ho sempre detestato l’attesa: non sapere che cosa il futuro abbia in serbo per noi, se quello che ci capiterà ci renderà più felici o più tristi. Sto attendendo da ormai due settimane il risultato del mio test d’ingresso alla facoltà di medicina e non sono mai stata così angosciata come ora all’idea di potere essere esclusa per la seconda volta dalla facoltà dei miei sogni, soprattutto dopo ore spese sui libri a riguardare la glicolisi e il ciclo di Krebs, i processi mitotico e meiotico, le ossa dello scheletro assile e la circolazione polmonare, giorni interi dedicati alle simulazioni e passati ad apporre crocette su crocette su un foglio risposte. E detesto quando mi dicono che se non dovessi farcela “non me la devo prendere poi così tanto” e che “se è destino che io faccia il medico succederà”. Perché solo io so cosa sia meglio per me, perché solo io so quanto impegno ci abbia messo, quanto tempo ho passato sui libri mentre i miei coetanei si riposavano o andavano al mare. Capisco che me lo dicano per tranquillizzarmi, ma per me è sempre un supplizio dover sentire simili parole. E quello che dicono riguardo al fatto che il test di medicina vada un po’ a fortuna è vero: ma non nel senso che tirando a indovinare tra le cinque opzioni si individui quella corretta, ma piuttosto che esca una domanda sull’argomento che hai ripetuto mille volte, o quella domanda di cultura generale di cui hai letto per puro caso tanto tempo prima sulle pagine di un giornale o consultando qualche articolo del web. Ed è per questo che comunque sia andata ho deciso di sorridere, in quanto ho comunque, in un modo o nell’altro, superato me stessa. Pensate che, prima di cominciare il test, per testare se la penna che l’Ateneo ci aveva fornito funzionasse adeguatamente, ho scritto sul foglio con le indicazioni relative al corretto svolgimento della prova una frase che mi ha dato la forza di non abbattermi anche qualora avessi incontrato una domanda riguardante un argomento che non padroneggiavo completamente. Ho trovato questa frase sulla pagina instagram di Promed, un gruppo di studenti di medicina che ogni anno si occupano di dare utili consigli ai ragazzi alle prese con i test di ingresso dell’area medica: “Se sei stato/a capace di credere a Babbo Natale per almeno otto anni puoi credere in te per più di cinque minuti”. E questa frase ha un enorme fondo di verità: siamo pronti a credere in qualcosa di cui non conosciamo l’entità o che non siamo in grado di spiegare scientificamente, ma quando arriva il momento di credere in noi stessi, ecco che ci tiriamo indietro, spaventati e angosciati. Ma questa reazione è l’esito di un’assente fiducia in noi stessi, causata dalla costante paura di fallire. Questa frase l’ho letta e riletta fino allo scoccare delle dodici in punto, orario di inizio della prova, insieme a “uno di quei 13.072 posti sarà mio”! Ed è così cominciata la mia battaglia, una battaglia che ogni studente del test d’ingresso a medicina combatte non solo contro gli altri ma anche contro se stesso. Quelle sessanta domande sembravano infinite e il tempo insufficiente per rispondere correttamente a tutte quante (non avete idea di quanto il tempo scorra velocemente durante il test!). Il mio errore più grande è stato quello di non aver risposto a domande di cui conoscevo la risposta, e che, per paura di sbagliare (penalità di 0,4 punti), ho lasciato in bianco (vengono in tal caso assegnati 0 punti). Ma un futuro bravo medico non deve forse analizzare tutti i pro e i contro di una sua azione? Ho evitato, probabilmente solo in parte, lo scacco matto da parte del lettore ottico. In questi giorni di attesa ho pensato e ripensato a quale sia il motivo per il quale io abbia deciso di fare il medico e non voglio rispondere, come molti fanno, “perché desidero aiutare gli altri”, ma “perché desidero di poter dare una speranza di vita in più a chi non ne ha molta” e per far sì che “la gente ricominci a sorridere e a credere nella scienza”. Perché, sebbene da piccola avessi il terrore dei medici e volessi fare lavori come la ballerina, l’astronauta, la maestra o la giornalista, credo che il mio sogno sia sempre stato quello di diventare medico. La testimonianza di questa mia affermazione risiede nel fatto che avevo tra le mani in ogni momento un libro illustrato dal titolo Bimbi in buona salute. Lo sfogliavo e rileggevo ogni volta che mi si presentava la possibilità. Sapete che cosa rispondo a chi dice “ma tu hai davvero voglia di studiare per sei anni?”, e “il lavoro del medico non è pagato adeguatamente”? “Ho sempre desiderato studiare, è una delle poche cose che mi riesce veramente bene” e “il guadagno non è nei miei interessi: non è il denaro a rendere felici le persone, sono i sogni!”. Pensateci: è il desiderio di avere raggiunto un obiettivo a rendervi felici, il fatto di aver reso orgogliosi in primis voi stessi e in secondo luogo i vostri cari. Questa è la sola cosa che importa, qualsiasi strada voi abbiate deciso di percorrere.

Riflessioni ai tempi del Coronavirus

Sono giorni di paura, di angoscia, di odio ingiustificato nei confronti di persone che non hanno colpe se non quella di essere nate e vivere nell’epicentro del virus.
È in momenti come questi che si comprende l’importanza della parola, la quale è, a dirla come Orwell, palestra di libertà, quella libertà di cui al momento ci sentiamo privati. Solo adesso comprendiamo quale sia il suo vero significato: possibilità di muoversi senza alcun genere di costrizione, di incontrarsi, di abbracciarsi, di vivere. Il tanto agognato restare a casa che, ogni singolo giorno dell’anno ogni giovane di età compresa tra i sei e i ventisei anni desidera, è arrivato, eppure nessuno di noi si sente in vacanza. Qualcuno ha definito questi giorni di quarantena “vacanze forzate” ed è così che reputo che ciascuno di noi li stia vivendo. La chiusura dei confini lombardi e successivamente quella dell’intera Italia si è resa necessaria per limitare e ridurre al minimo la possibilità di contagio, eppure c’è chi pensa che sia stata una misura eccessiva e ingiustificata; alcuni hanno lasciato “illegalmente”, se così si può dire, la zona rossa, nonostante le stringenti prescrizioni. Ci troviamo a combattere in un territorio del quale non conosciamo la conformazione e contro un nemico le cui armi sono, ad oggi, a noi pressoché sconosciute. Eppure dovrebbe essere in situazioni come queste che il fantomatico “amore verso il prossimo” dovrebbe congiungerci e non dividerci, limare quell’odio incontrollato che l’amore dovrebbe averci aiutato a curare dal primo momento in cui ci siamo affacciati alla vita.
Si è sempre pronti ad additare chi non la pensa come noi, chi dimostra di avere delle idee diverse dalle nostre circa un argomento, non si va mai oltre le apparenze.
La colpa, ammesso che si tratti di colpa in una simile circostanza, non è di nessuno di noi. Pertanto in questi giorni di “reclusione” mi è tornato alla mente il romanzo prediletto dal mio professore di francese del liceo: La Peste di Albert Camus. Nello scritto di Camus, la peste si diffonde a macchia d’olio, da individuo a individuo, usando come veicolo di trasmissione les rats, i topi. Analogamente il nuovo virus, Sars-Covid-19, ha avuto origine dai pipistrelli, si è modificato nell’organismo di un serpente, ed è stato trasmesso all’uomo. Il protagonista della Peste, il medico Bernard Rieux, risiede nella città algerina di Orano negli anni quaranta del Novecento. In primavera si abbatte sulla cittadina di dominazione francese il “terribile flagello”, la peste. I topi vengono trovati morti a centinaia e i cittadini iniziano a presentare i sintomi della pesta bubbonica. Rieux, con l’aiuto di altri personaggi tra i quali spicca il coprotagonista, Jean Tarrou, cerca una possibile cura contro il flagello. Gli infetti e i morti aumentano esponenzialmente e la peste non si arresta con l’arrivo della bella stagione, durante la quale si tramuta in peste di tipo polmonare. Le autorità non tengono in considerazione i sospetti di Rieux temendo di diffondere il panico inutilmente tra i cittadini. I luoghi pubblici vengono tenuti aperti nonostante le enormi probabilità di contagio. Grazie a una meticolosa ricerca viene trovata la cura…
Le analogie tra la peste raccontata nel celebre romanzo di Camus e il nuovo virus sono molteplici: il “terribile flagello” ad oggi non è la peste, ma il Coronavirus, che sembra non verrà debellato con l’arrivo della bella stagione e che potrebbe addirittura andare incontro a modificazioni geniche a causa dei cambiamenti climatici.
A differenza delle autorità descritte nel romanzo, lo Stato italiano è intervenuto tempestivamente, blindando le cosiddette zone rosse e vietando a chiunque, se non per emergenze giustificate, di entrare o uscire dai confini lombardi: allo stesso modo Rieux decide di non lasciare la città di Ornano per raggiungere la moglie gravemente malata in un’imprecisata località di montagna nella quale si è ritirata auspicandosi una celere guarigione. Ed è per questo che molti, a ragione, hanno definito sconsiderata la decisione presa da molti Italiani che, al momento dell’emissione del decreto di chiusura della Lombardia, presi dallo spavento, si sono accalcati nelle stazioni per raggiungere quanto prima i propri famigliari nelle varie regioni d’Italia.
Ci si trova di fronte non solo a un questione di ordine sanitario ma anche sociale: la chiusura delle scuole e degli atenei di tutta Italia ha comportato non pochi problemi per i genitori, alcuni dei quali, dovendo continuare a lavorare, si sono trovati a non sapere a chi poter affidare i propri figli. E, in una simile situazione, si comprende quale importante ruolo detengano l’istruzione, la cultura e la sanità. E, riallacciandoci al tema di apertura dell’articolo, solo la conoscenza rende veramente liberi. E per conoscere è necessario studiare, come spesso mi hanno ripetuto al liceo, gli antichi Greci e Latini, la storia e la filosofia. Solo in questo modo si potranno sconfiggere l’odio, il razzismo e l’ignoranza dilagante nel Mondo. Al liceo ci lamentavamo quando la nostra professoressa di storia ci obbligava a leggere il discorso di questo o quello storico, ci stupivamo se l’Italia, durante il periodo fascista, era caduta succube di Mussolini, esclamavamo “che noia!” quando dovevamo tradurre una versione che parlasse dello Stato e della società, la quale, come sottolinea la parola stessa, indica l’unione e la vicinanza degli alleati e dei fratelli, socii. Ed è così che dobbiamo essere adesso: vicini! Perché siamo come le pietre di una volta che si reggono a vicenda, come bene mostra la metafora usata da Seneca.
Allora bisognerebbe dedicare questi giorni a tutte le attività che vorremmo fare durante l’anno, ma che, per un motivo o per l’altro, siamo sempre costretti a procrastinare. E allora perché non ci sediamo comodamente sul divano e non gustiamo un bel libro? (Tra l’altro io ve ne ho consigliato uno). Perché non assaporiamo un bel film, magari dal gusto un po’ rétro? (Blade Runner, chi era costui?). Perché, e questo lo suggerisco ai miei coetanei, non ci portiamo avanti con lo studio? Perché semplicemente non ne approfittiamo per stare a casa con la nostra famiglia, mantenendoci, come suggerito, ad almeno un metro di distanza? E perché, a proposito di metri, non impariamo a cucire? E badate a non credere alle teorie complottistiche: se qualcuno avesse voluto sterminarci, lo avrebbe fatto già da molto tempo!

L’ESAME DI DANZA

Finalmente il giorno che ho atteso a lungo è arrivato. Stamattina è un giorno speciale, il giorno dell’esame di danza! E’ il 10 maggio 2016 e il mio cuore batte all’impazzata. Sono riuscita a stento a mandare giù la colazione. Pensate, ho controllato almeno una decina di volte di avere messo tutto l’occorrente nel borsone: body, calzamaglia rosa, scarpette rosa, scarpe e gonna per la danza di carattere, elastico, forcine, retina…ma ho come la sensazione di avere dimenticato qualcosa…qualcosa di fondamentale importanza. Ho portato con me anche un piccolo portafortuna: una scarpetta con la punta, che mi è stata recapitata da mia cugina di secondo grado che è andata a visitare l’Opera di Oslo. Sto fremendo per la paura, l’angoscia e il desiderio che tutto questo finisca al più presto. Mio papà mi ha accompagnata al luogo in cui si svolgerà l’esame e io non ho fatto altro per tutto il tragitto che parlare cercando di scacciare la paura che lentamente si sta impossessando di me. La mia insegnante è agitata quanto noi ballerine. La si vede correre avanti e indietro, mentre cerca di aggiustare chignons venuti male. Io farò l’esame assieme ad altre tre mie amiche del mio stesso corso, costituito da circa 14/15 ragazze. Noi, per circa tre mesi, abbiamo preparato gli esercizi del 6° grado. La suddivisione in gradi è dettata dalla “Royal Academy of Dance”di Londra, nella quale la mia maestra ha studiato, ottenendo una serie di diplomi che le hanno permesso di diventare insegnante di danza classica. Ho cominciato a prepararmi, infilando la calzamaglia rosa, il body nero, le scarpette… poi è il momento dello chignon. Sui nastri delle scarpette spruzziamo la lacca per evitare che si sciolgano mentre eseguiamo gli esercizi. I minuti che ci separano dall’esame diminuiscono sempre più. Io e le mie compagne scattiamo una serie di foto davanti allo specchio per ricordarci, un tempo terminato l’esame, delle emozioni che stiamo provando. E poi ecco che il momento è arrivato, la campanella dell’esaminatrice emette il suo suono e noi in fila entriamo nella stanza, inchinandoci dinnanzi a lei e al pianista che eseguirà le musiche su cui noi tra pochi secondi dovremo eseguire i passi su cui ci siamo esercitate per molto tempo. Ci presentiamo e poi ci muoviamo in direzione della sbarra. La mia paura aumenta, il cuore sbatte contro la gabbia toracica senza sosta, le gambe tremano e io non posso fare nulla per fermarle, inizio a sudare freddo. Poi inizio a ballare, concentrandomi solo sui passi e sulla musica, facendo sparire tutto quello che mi circonda. Mi sollevo sulle punte e ballo. Alla sbarra ci sono stati assegnati i posti che dobbiamo occupare con dei numeri: 1,2,3,4. Io sono la prima! In un esercizio arrivo in anticipo con la musica e sento che il sangue mi tinge il viso di rosso, allora guardo verso l’esaminatrice, ma lei sorride. A quel punto mi rilasso e continuo a ballare. Terminati gli esercizi alla sbarra, ci spostiamo al centro della sala, dove eseguiamo gli esercizi due alla volta. Oramai non sono più spaventata, sono solamente contenta di poter finalmente dimostrare quanto mi sono impegnata in questi mesi…inizia il conto alla rovescia: port de bras, adagio, salti, pirouettes, Grande Allegro, performance classica, che dobbiamo eseguire una per volta, esercizi di Free movement e infine Carattere, il mio cruccio, la cosa in cui riesco meno. Ma finisce tutto, sono arrivata fino in fondo senza grossi problemi. Finalmente è arrivato il momento dell’ inchino e del ringraziamento all’esaminatrice e al pianista.  E poi fuori dalla stanza…tiriamo un respiro di sollievo, è finito tutto! Fuori la nostra insegnante ci domanda come è andata, e noi rispondiamo all’unisono: “Bene!!!”. La stessa domanda mi viene posta da mio padre quando torno in macchina e da mia madre la sera a casa, e il giorno dopo dai miei compagni di classe. Benchè io abbia fatto numerosi esami di danza, non mi sono ancora abituata all’idea e la paura permane, anzi ogni volta cresce.

Benjamin Millepied

Benjamin Millepied nasce in Francia il 10 giugno 1977. La madre, la ballerina  di danza moderna Catherine Flori, lo inizia alla danza alla tenera età di otto anni. Dai 13 ai 16 anni Benjamin studia danza e balletto al ”Conservatoire National de Lyon” con i maestri Marie France e Michel Rahn. Nell’estate del 1992, il giovane ballerino si reca a New York dove frequenta un corso estivo al ”The School of American Ballet”, la scuola ufficiale del ”New York City Ballet”. L’anno seguente viene ammesso alla scuola dopo aver ottenuto dal Ministro francese una borsa di studio, la ‘Bourse Lavoisier’. Alla ”School of American Ballet” (SAB) viene seguito nello studio della danza dai maestri Stanley Williams e Adam Luders. Nel 1994 il talentuoso ballerino ottiene una parte nel balletto ”2 & 3 Part Inventions” di Jerome Robbins, ideato sulle musiche del celebre compositore Johann Sebastian Bach. Le musiche di questo balletto: ” Inventions and Sinfonias” furono composte dal musicista tra il 1720 e il 1723. Il coreografo Robbins ne ha selezionate alcune per il suo balletto, che riporto qui sotto:
-Inventio 1, BWV 772
-Inventio 4, BWV 775
-Sinfonia 4, BWV 790
-Sinfonia 6, BWV 792
-Inventio 12, BWV 783
-Inventio 6, BWV 777
-Sinfonia 11, BWV 797
-Inventio 8, BWV 779
-Inventio 15, BWV 786
-Sinfonia 15, BWV 801
-Sinfonia 9, BWV 795
-Inventio 1, BWV 772

Tra i danzatori che ballarono in questo balletto ricordiamo: Kristina Fernandez, Benjamin Millepied, Eliane Munier, Amaury Lebrun, Riolama Lorenzo, Alex Ketley, Jennifer Chipman e Seth Belliston, un corpo di ballo costituito da otto ballerini ( 4 ballerine e 4 ballerini). La prima del balletto si tenne il 4 giugno 1994.

Nell’ultimo anno che passa al NYCB riceve il premio dal nome ”Mae L. Wien Award for Outstanding Promise”. Nello stesso anno viene invitato a diventare membro della scuola. Nella primavera del 2001 diviene Principal Dancer al NYCB, dove rimane fino al suo addio alle scene nel 2011.

Con il New York City Ballet Benjamin Millepied interpreta un vasto repertorio principalmente di coreografi quali George Balanchine e Jerome Robbins. Molte coreografie sono state ideate proprio per Millepied; tra esse ricordiamo quelle di Jerome Robbins, Alexei Ratmansky, Christopher Wheeldon, Mauro Bigonzetti, Angelin Preljocaj, Peter Martins e molti altri.

Nel 2001 Benjamin inizia la sua carriera da coreografo e nel 2002 scopre la ”Danses Concertantes”, una compagnia che sceglie i ballerini a ogni tour e che per oltre otto anni mette in scena le proprie coreografie  e i suoi repertori nei Teatri più importanti al Mondo.

Dal 2006 al 2007 Benjamin Millepied viene definito ”coreografo in residenza” presso il Baryshnikov Arts Center. Durante la permanenza al BAC  idea un assolo chiamato ”Years Later” per il celeberrimo coreografo Mikhail Baryshnikov.

Nel 2010 è nominato ”Chevalier in the Order of Arts and Letters” dal Ministro francese della cultura.

Molti balletti di Millepied sono conservati nei repertori delle più grandi compagnie del Mondo quali: il New York City Ballet, l’Opéra di Parigi, l’American Ballet Theatre, il Mariinsky e moltissimi altri.

Nel 2010 idea le coreografie e balla  nel film del regista Darren Aronofsky dal titolo ”Il Cigno Nero” (The Black Swan) interpretato da Natalie Portman, attuale moglie del ballerino Benjamin Millepied, Mila Kunis e Vincent Cassel.

Nel 2012 Benjamin Millepied si sposta a Los Angeles dove lavora per la compagnia Los Angeles Dance Project. Il compito di questa speciale compagnia è quello di ammettere al suo interno ballerini emergenti in modo da permettere loro di dimostrare il proprio talento.

Sempre nel 2012 Millepied collabora con il compositore Nico Muhly e l’artista Christopher Wool. Nel maggio 2013 la compagnia di Los Angeles presenta un nuovo lavoro per il quale hanno collaborato Benjamin Millepied, il compositore David Lang e l’artista Barbara Kruger.

Nel 2013 il coreografo scopre la compagnia ”Amoveo” con la quale elabora molteplici progetti. Con la compagnia collabora anche il musicista Nicholas Britell.

Sempre nel 2013, più precisamente in gennaio, Millepied viene nominato direttore dell’ Opéra di Parigi. Lo rimarrà fino alla fine dell’estate 2016. Ha deciso dunque di rinunciare all’incarico affidatogli nel 2013.

Dal 2013 a oggi ha continuato il suo lavoro con la compagnia L.A. Dance Project con la quale farà una tappa in Europa nei prossimi mesi. Nel maggio prossimo è prevista una tournée in Francia dove verranno presentati i lavori di Millepied, William Forsythe, Sidi Larbi, Roy Assaf e Cherkaoui.

Le informazioni per la stesura di questo articolo sono state prese dal sito www.benjaminmillepied.com/ e dal paragrafo ‘L.A. Dance Project’ a pag. 13  della rivista di danza Ballet2000 n°259  (noto anche come Ballettooggi). Mi sono servita però anche di altre fonti, come per esempio libri.

Immagine del sito ”Thinkprogress”. Link: http://thinkprogress.org/alyssa/2013/08/27/2530171/benjamin-millepied-paris-opera-ballet/

 

 

Teatro alla Scala (Milano)

Il Teatro alla Scala di Milano (più comunemente chiamato la Scala) ospita i più famosi artisti di tutto il Mondo da oltre duecento anni. Il teatro è situato nell’omonima piazza ed è affiancato dal Casino Ricordi, che oggi è la sede del Museo del Teatro alla Scala. Il bellissimo tetro prende il nome dalla Chiesa di Santa Maria alla Scala, che è stata così intitolata a causa della committente Regina della Scala. La Chiesa fu demolita alla fine del diciottesimo secolo e vi fu innalzato il teatro, inaugurato il 3 agosto 1778 con L’Europa riconosciuta, un dramma per musica composto per l’occasione da Antonio Salieri. Fino dall’anno di fondazione è sede del coro, dell’orchestra e del corpo di ballo, nonché dal 1982 anche della filarmonica.

Il Nuovo Regio Ducal Teatro

Il Teatro alla Scala fu costruito a seguito del decreto dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, dopo che l’incendio del 26 febbraio 1776 distrusse il teatro di corte. Il progetto del teatro fu affidato all’illustrissimo architetto Giuseppe Piermarini. La decorazione pittorica fu affidata a due grandissimi artisti Giuseppe Levati e Giuseppe Reina. Domenico Riccardi dipinse invece il sipario che secondo una leggenda rappresenta il “Parnaso”. Le spese di edificazione del Tetro furono in mano ai palcchettisti del cosiddetto “Regio Ducale”. La demolizione della collegiata di Santa Maria cominciarono il 5 agosto 1776, il 28 maggio 1778 si svolsero le prime prove di acustica e il 3 agosto, quando fu presente l’arciduca Ferdinando d’Asburgo-Este, governatore di Milano, di Maria Beatrice D’Este, del conte Carlo Giuseppe di Firmian e del duca Francesco III D’Este, venne inaugurato il “Nuovo Regio Ducal Teatro” con 3.000 posti.

Il Teatro non svolgeva solo un ruolo di spettacolo, cioè non si andava solo per ascoltare un’ opera lirica, musicale o per assistere a un balletto, ecc., ma era un luogo di ritrovo. Infatti i famosi palchetti venivano utilizzati per svolgere danze, o per invitare ospiti, mangiare e gestire la propria vita sociale. Spesso si giocava anche d’azzardo, la massa lo faceva solo a tetro in quanto era proibito giocare per strada, mentre nel teatro era d’abitudine. I primi tre ordini di palchi erano stati comprati dall’aristocrazia mentre il quarto e il quinto dall’alta borghesia. In platea e soprattutto in loggione, invece, vi era un pubblico misto costituito da: militari, giovani aristocratici, borghesi, artigiani.

Il problema maggiore nell’organizzazione delle stagioni era quello di mantenere vivo l’interesse da parte del pubblico, che spesso si dimostrava distratto poiché impegnato nello svolgimento di altre faccende come quelle sopra citate. Essendo a lungo andare ormai insostenibile lo sfarzo della  “Europa riconosciuta”, si iniziarono a mettere in scena nuove opere, tra le quali ricordiamo ” Troia distrutta” di Michele Mortellari, rappresentata per la prima volta il 1°settembre 1778. Tra le altre opere ricordiamo “Venere in Cipro” (1° gennaio 1779) di Felice Alessandri, il 30 gennaio “Cleopatra” di Pasquale Anfossi e il 26 dicembre ” Armida” di Josef Myslivecek.

Il 26 dicembre 1787 vennero introdotte le prime ” argantas”, ossia un tipo di lampada. In seguito a alcune morti di personaggi illustri, il teatro venne chiuso; tra queste ricordiamo: quella di Giuseppe D’Asburgo-Lorena e quella di Leopoldo II D’Asburgo-Lorena. Il 15 maggio 1796 ci fu la prima rappresentazione di ” Chant de guerre de l’armée du Rhin” (La Marseillaise) di Claude Joseph Rouget de Lisle. Il 24 marzo 1799 il Direttorio abolì il Palco Reale, ossia il palco posto frontalmente al palcoscenico. Nel 1823 venne posto al centro del soffitto un lampadario con ottantaquattro lumi a petrolio, grazie a un’idea di Alessandro Sanquirico. Molti si ribellarono; infatti ritennero che il lampadario illuminasse troppo la sala permettendo agli sguardi indiscreti di penetrare nell’intimità dei palchetti.

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La facciata neoclassica de Teatro (immagine scaricata da Wikipedia).

Immagine raffigurante Santa Maria della Scala, Collegiata Regia, demolita per costruire il teatro. (Incisione di Marc’ Antonio Dal Re del 1745). Immagine scaricata da google immagini.

La facciata dal teatro raffigurata in due diverse incisioni storiche, una in rame del 1790 (sopra) e l'altra all'acquatinta del 1850 (sotto): si noti, in quest'ultima, il corpo laterale aggiunto nel 1835.

La facciata dal teatro raffigurata in due diverse incisioni storiche, una in rame del 1790 (sopra) e l'altra all'acquatinta del 1850 (sotto): si noti, in quest'ultima, il corpo laterale aggiunto nel 1835.

Due immagini raffiguranti il Teatro alla Scala, un’incisione in rame del 1790 e un’altra del 1850 in acquatinta. Nella Seconda incisione si può osservare il corpo laterale aggiunto nel 1835. (Immagini scaricate da google immagini).

Pianta del teatro in un’ incisione in rame di Gaetano Marcoli del 1789. (Immagine scaricata da google immagini).

ISTANTANEE- Anna Maria Farabbi: Vittoria Ottolenghi. L’enigma, l’estro, la grazia. Danze dionisiache dal Parnaso a Nijnsky

CARTESENSIBILI

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Un piccolo capolavoro firmato da una maestra come Vittoria Ottolenghi, scrittrice, giornalista, raffinata critica di danza. Indimenticabile la sua Maratona su Rai Uno per promuovere l’arte del balletto.
La sua scrittura ha la qualità pregevole di tessere coltissimi fili con leggerezza sapiente, ironica, velocissima e piacevole, riuscendo a porgere al lettore immagini di dettagli, gesti, sospensioni, differenze e identità del linguaggio corporeo nelle sue emozionanti figure aeree. Qui traccia le sponde della creazione coreografica tra il carattere dionisiaco e quello apollineo. Ne coglie l’essenza, nel corso dei secoli, ma anche condivisioni inscindibili, citando preziosi riferimenti a opere e artisti.
Completano il libro un utile percorso di approfondimento accompagnato da immagini e bibliogafia. La prefazione che annuncia le tematiche è di Francesca Adamo, curatrice del libro.

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Vittoria Ottolenghi, L’enigma, l’estro, la grazia. Danze dionisiache dal Parnaso a Nijnsky–  Mimesis 2014
A cura di Francesca…

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